Se la dolente Pia de' Tolomei raccontandoci di se in due terzine e un verso a conclusione del canto V dell'Inferno ci conquista subito e per sempre; l'esuberante Sapìa, protagonista assoluta del canto XIII del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri, fa un po' fatica, secondo me, a conquistarci senza riserve se non si hanno le informazioni biografiche necessarie.
Personalmente ho dovuto rileggere più volte questo Canto e alla fine be, devo dire che anche Sapìa mi ha fatto tenerezza.
Ci troviamo nella seconda cornice del monte del Purgatorio dove scontano la loro pena le anime degli invidiosi, quelli cioè che perseguono un 'malo obiettivo'.
Vestiti con abiti grezzi, gli invidiosi appaiono a Dante e Virgilio nello stesso atteggiamento con cui i mendicanti ciechi se ne stanno davanti alle chiese per chiedere l'elemosina: seduti uno accanto all'altro, appoggiati al muro, con il capo abbandonato sulla spalla dell'altro per suscitare maggiore pietà nella gente.
Come mai questo paragone con i mendicanti 'ciechi'? Perché le anime degli invidiosi hanno gli occhi chiusi, cuciti da fil di ferro e così serrati che le lacrime scorrono bagnando le loro guance. Neanche Dario Argento ha mai osato tanto! o forse sì?
Comunque, non so voi; ma io quando ho letto ch'a tutti un fil di ferro i cigli fora/e cuce sì, come a sparvier selvaggio/ si fa però che queto non dimora (vv 70-72) ho avuto la stessa sensazione che mi procura la vista dei piercing e cioè provo io dolore fisico per l'altro.
E però la legge del contrappasso qui è applicata in maniera impeccabile. Infatti 'gli occhi degli invidiosi che in vita godettero nell'osservare il dolore altrui, sono ora chiusi alla luce del ciel: una cecità fisica che dipende da quella cecità morale per cui essi capovolsero la visione del mondo e delle cose, sostituendo all'amore verso il prossimo il desiderio del suo male.' (Tratto da: Divina Commedia di Dante Alighieri a cura di Emilio Alessandro Panaitescu Gruppo Editoriale Fabbri)
Dante come al solito interpella le anime ed è Sapìa a rispondere, l'anima che volge il mento all'insù, come fanno i ciechi quando sentono una voce:
"Io fui Sanese" rispuose, "e con questi
altri rimondo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapia
fossi chiamata, e fui delli altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.(Una targa posta in cima a Via Vallerozzi, nell'abitazione a Siena che fu di Sapìa, ricorda questi versi)
E perché tu non creda ch'io t'inganni,
odi s'i' fui, com'io ti dico, folle,
già discendendo l'arco di miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co' loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.
Rotti fuor quivi e volli nelli amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch'io volsi in su l'ardita faccia.
gridando a Dio "Omai più non ti temo!"
come fe' il merlo per poca bonaccia.
vv 106 - 123
Da questi versi capiamo che si tratta di una donna che dice pane al pane e vino al vino senza cercare di giustificarsi altrimenti non si sarebbe autodefinita folle.
Sapìa, zia di Provenzano Salvani e moglie di Guinibaldo Saracini, abitava con il marito a Castelghinibaldi, all'incrocio tra Firenze e Colle, oggi Castiglionalto di Monteriggioni. Insieme a lui si dedicò a opere religiose e di pietà fondando anche un Ospedale. Fu proprio da Castelghinibaldi che Sapìa nel 1269, anno della Battaglia di Colle, vide i suoi concittadini in fuga verso Siena e se ne compiacque.
Come mai se ne compiacque? a questa domanda non avevo trovato risposta quando ho letto la Divina Commedia l'anno scorso e forse è per questo che ho tardato un po' a scrivere questo post.
La risposta l'ho trovata qualche giorno fa nella ristampa di Dante a Siena di Pietro Rossi - Betti Editrice.
Scrive Pietro Rossi, infatti: "Poiché rileviamo che Ghinibaldo deve essere venuto a morte nel 1268, proprio nell'epoca nella quale le sue terre come tutte quelle del contado di Colle erano corse dall'invasione dell'esercito senese, e fatte segno alle fiere rappresaglie di Provenzano Salvani, ed è quasi lecito supporre che sia morto a causa di quella guerra, si possono ritrovare in questi avvenimenti i motivi dell'odio di Sapìa contro i ghibellini senesi e colui che ne era il conduttore ed il capo; e si può capire la sua esultanza quando l'esercito Sanese l'anno di poi fu sconfitto a Colle, e Provenzano fu ucciso."
Quindi fu per amore che Sapìa si compiacque della sconfitta dei suoi concittadini. O no? E in quel 'discendendo l'arco di miei anni' sembra quasi che quell'unica volta Sapìa si sia lasciata andare all'invidia. Della serie 'anche i ricchi piangono', per dire.
Di questo peccato Sapìa si pentì in fin di vita; ma a risparmiarle l'Antipurgatorio furono le preghiere di suffragio di Pier Pettinaio.
Il fatto che Sapìa se ne rammenti rende omaggio alla sua equanimità.
Pier Pettinaio fu un terziario francescano che vendeva pettini e che morì più che centenario nel 1289 in fama di santità. Era così umile che quando veniva al mercato nel Campo a vendere i suoi pettini si racconta che arrivasse poco prima della chiusura per non rubare clienti agli altri banchi.
Sapìa è una donna dai sentimenti forti, propri dell'animo toscano; quindi è ironica, schietta, sanguigna.
Sapìa chiede a Dante preghiere in suffragio ma anche di ripristinare la sua fama tra i suoi parenti, che Dante potrà rintracciare in quella 'gente vana', i senesi.
Io credo che solo un senese possa dire dei senesi che è 'gente vana' senza temere per la sua incolumità; chè se lo dicessero altri... Come le mamme con i propri figli. Provate a dire ad una mamma che suo figlio è un po' maleducato e vedrete... lei però può dire quello e altro :-)
Per completezza d'informazione, come mai l'appellativo di 'gente vana'? per aver i senesi acquistato a caro prezzo la località di Talamone sperando di farne un buon porto per uno sbocco sul Tirreno - cosa che non si verificò per il luogo malsano, la cattiva posizione e l'eccesso di lontananza da Siena - e per la ricerca lunga e dispendiosa ma senza risultato di un fiume chiamato Diana che si diceva scorresse sotto la città.
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