di Federigo Tozzi
Manni Editore
Lecce
2009
Questo post lo considero un'appendice del precedente sulla Passeggiata d'autore alla scoperta di Federigo Tozzi a Siena, perché per completezza d'informazione ci tenevo a condividere qualche notizia in più sull'opera che è stata più volte citata durante il percorso e che mi sono precipitata a reperire tanto mi ha entusiasmato il linguaggio.
Bestie è una raccolta di racconti brevi, per lo più biografiche, che Tozzi scrisse in parallelo alle sue opere più impegnative. A me sembrano delle vere e proprie liriche.
Attraverso queste micronarrazioni, come vengono definite nella presentazione dell’opera, Tozzi ci racconta di se, della sua quotidianità ma anche della sua anima in conflitto con la sua città, Siena. Tanto si sente soffocare da essa da decidere ad un certo punto di trasferirsi a Roma per trovare nuovi orizzonti.
Queste prose sono state pubblicate per la prima volta nel 1917.
La caratteristica comune a quasi tutte le narrazioni è di concludersi con l’ingresso in scena di un animale, una bestia per l’appunto, che non viene umanizzato ma rappresenta se stesso.
Tozzi infatti ci descrive cosa fa questa bestia e anche la sua reazione nei confronti di essa, a volte passiva, a volte attiva fino anche ad essere spietata.
La bestia, che può essere un uccello, un animale di cortile, un insetto, un rettile, un anfibio, una larva da insetto o altro, comunque proveniente dal mondo contadino che Tozzi conosceva bene, si integra perfettamente con il contenuto precedente e detta il finale del breve componimento.
Ecco qualche anticipazione:
Nel tinaio, sotto un vecchio barile che aveva perduto anche i cerchi, ritrovo una tavola di sorbo. Perdio! Se mi riesce a segarla come voglio, mi ci viene un bel tagliere. Prima, con la lima a triangolo, arroto i denti della sega, poi mi metto all'opera. È legno così duro, che, per quanto consumi tutta la sugna che tenevo incartata su la cappa del camino, non giungo alla fine. La sega brucia e doventa pavonazza. E poi, non riesco ad andare a filo. Allora prendo un accettino e concio la tavola alla meglio. Quando ho quasi finito, m'accorgo che c'è un buco fatto da un tarlo. Lo voglio trovare! Spacco nel mezzo la tavola; e in fondo al buco, che gira quasi come una spirale, lo trovo: bianco e tenero, con una puntina rossa. Lo lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una Tebaide.
***
La strada dove non sono più stato è quella che m'era piaciuta tanto, forse più delle altre.
Già non vi passava nessuno! L'erba v'era alta, con il muschio così verde che pareva una vernice a olio, sciolta.
Sempre l'ombra del muro altissimo, scrostato, scalcinato; un'ombra che pareva più pesa del muro, fredda, silenziosa.
E di là, a pochi metri di distanza, il sole chiaro e caldo, e le farfalle che quando si sono prese in mano bisogna ucciderle!
***
Sentirsi solo è un piacere che spaventa.
Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si ricordassero di conoscermi.
Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era tutta la strada che voleva saltarmi addosso.
Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta.
E' stato difficile scegliere perché sono tutte molto originali; quella del tarlo mi ha fatto molto sorridere sia per la scelta insolita del tipo di bestia sia perché mi sono immaginata tutta la scena!
Le prose descrittive di Siena hanno una bellezza in più, per me, data dal fatto che conosco perfettamente i luoghi di cui parla. Per un assaggio vi rimando al post sulla Passeggiata d'autore Federigo Tozzi (Siena 1883 - Roma 1920)
A conclusione riporto questo componimento brevissimo sulla morte che mi ha colpito in maniera particolare:
Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me.
Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo.
L'albero di Tozzi ha richiamato alla mia mente Giuseppe Penone, esponente della corrente dell'Arte Povere, che agli inizi della sua carriera a metà degli anni sessanta operava principalmente con gli alberi.
In uno dei suoi scritti Penone dice:
Entrare nella foresta del legno è un viaggio nel tempo,
nella storia di ogni singolo albero e di ogni anno della sua vita.
La lentezza con cui si ripercorre, si svela, un anno dell'albero
ricorda la sua crescita, più sarà lenta e più sarà ricca di particolari,
di piccole storie e conoscenze della sua esistenza.
Penetrare con lo scalpello nella storia intima del legno, cesellata da giornate
di sole, di pioggia, di neve, di gelo, da incontri con altre forme viventi,
contatti di insetti, animali, da incidenti, percosse, incisioni,
lacerazioni, carezze di altri vegetali è un'idea che solo
un pensiero aderente alla materia può sviluppare.
Di sicuro entrambi amano l'albero.
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