domenica 5 agosto 2012

Rayuela

Rayuela di Julio Cortazar

di Julio Cortázar
Einaudi Editore
Cles (Trento)
2012


Romanzo i cui capitoli, numerati e suddivisi in tre parti, si possono leggere in due modi + uno:

1- ‘come abitualmente si leggono i libri’ dalla prima all’ultima pagina;
2- seguendo l’ordine indicato all’inizio del libro dallo stesso autore;
3- seguendo un ordine a caso, secondo me.

Questa triplice possibilità di lettura è data dal fatto che il romanzo volutamente non è scritto in maniera lineare per cui quella che ci sembra la storia principale è però intervallata da riflessioni di un certo scrittore Morelli sull’opportunità del  'linguaggio letterario' e anche perché ‘fiumi metafisici’, dotati di autonomia, scorrono in ogni capitolo. Questi motivi invogliano, almeno me, ad una rilettura nel tempo.

Siamo negli anni ’50 del XX secolo. Horacio Oliveira è un perditempo che a Parigi ‘scrive o disegna’ e ‘tiene della contabilità clandestinamente’. Dedito per ‘destino’ alla ricerca dell‘unità, del centro, dell’assoluto; condivide chiacchierate metafisiche con gli amici del Club del Serpente tanto che uno di loro, Etienne, gli dirà: ‘Horacio Curiazio, sei capace di trovare la metafisica anche in una scatola di pomodori.

Incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite’ dice Horacio raccontando del suo incontro con la Maga a Parigi. ‘Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci’.

La Maga (soprannome) è di una semplicità disarmante con una ‘faccia sempre avida nel momento dell’ignoranza e delle spiegazioni’, ‘incapace di credere nei nomi, aveva bisogno di mettere il dito su tutto e solo allora ammetteva’, ‘capiva benissimo un mucchio di cose che noi ignoriamo a forza si saperle.

Lui è di Buenos Aires, lei è di Montevideo. S’incontrano a Parigi. Si amano. S’innamorano. Un fatto irrompe nella loro quotidianità. Si separano; ma la presenza della Maga continuerà ad aleggiare nei pensieri di Horacio per tutto il libro.

Horacio torna in Argentina e ritrova il suo amico di gioventù, Traveler, la donna di costui, Talita e Gekrepten, la donna che, 'novella penelope', ha atteso il suo ritorno.

Così vennero il circo, le serate del mate nel cortile del signor Crespo, i tanghi di Traveler, e in tutti quegli specchi Oliveira si guardava di sottecchi.’… ‘Sapersi innamorato della Maga non era un fallimento e neppure un mettere radici in un ordine caduco; un amore che poteva prescindere dal proprio oggetto, che nel nulla trovava il proprio alimento, andava a sommarsi forse ad altre forze, le articolava e le fondeva in un impulso che avrebbe distrutto un giorno quella contentezza viscerale del corpo gonfio di birra e di patate fritte.

Ci sono dei capitoli che sembrano dei racconti a se stanti come quello dell’incontro di Oliveira con la pianista Berthe Trépat (capitolo 23) e che, secondo me, offre ad Oliveira lo spunto per una riflessione sul concetto di ‘pietà’ e quello scritto per primo (capitolo 41) a seguito di una situazione a cui Cortázar aveva assistito di persona come egli stesso rivela nell’intervista riportata in fondo al libro:

'Non ricordo esattamente se ho iniziato a scrivere il romanzo a Parigi o a Buenos Aires. Quello che so per certo è che un giorno d’estate, con un caldo spaventoso (doveva essere Buenos Aires) ho visto dei personaggi impegnati in una serie di azioni totalmente assurde. Erano affacciati a due finestre divise da pochissimo spazio ma con quattro piani sotto e cercavano di passarsi un pacchetto di erba mate e dei chiodi. Ho iniziato a scrivere dettagliatamente tutte le idee che venivano loro in mente per costruire un ponte con una tavola, con la quale attraversare il vuoto da una finestra all’altra e passarsi così il mate e i chiodi. […] Ho scritto quel capitolo, e alla fine (dura circa quaranta pagine) mi sono reso conto che non era un racconto. Ma allora cos’era? Era in un certo senso un frammento, una specie di cucchiaiata di miele sulla quale poi si sarebbero venute a posare mosche e api.'

Si tratta di situazioni abbastanza surreali come del resto lo è tutto il libro.

A proposito di Rayuela, il gioco della Campana che facevamo da bambini e che dà il titolo al libro:

Il gioco del mondo si fa con una pietruzza che si deve spingere con la punta del piede. Ingredienti: una marciapiedi, una pietruzza, una scarpa, e un bel disegno con il gesso, preferibilmente colorato. In alto è il Cielo, sotto la Terra, è molto difficile arrivare con la pietruzza al Cielo, quasi sempre si calcola male e la pietruzza esce dal tracciato. A poco a poco però, si acquista l’abilità per conquistare ciascuna delle caselle e un bel giorno s’impara ad uscire dalla Terra e a far risalire la pietruzza fino al Cielo, fino a entrare nel Cielo, il guaio è che proprio a questo punto, quando quasi nessuno si è mostrato capace di far risalire la pietruzza fino al Cielo, termina d’un tratto l’infanzia e si cade nei romanzi, nell’angoscia per il razzo divino, nella speculazione a proposito di un altro Cielo al quale bisogna imparare ad arrivare. E perché si è usciti dall’infanzia si dimentica che per arrivare al Cielo occorrono, come ingredienti, una pietruzza e la punta di una scarpa.

Da rileggere ancora e ancora.

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